lunedì 14 novembre 2011

STANZA #002: Martin Bryant


E’ il 28 aprile 1996, domenica. Sono le 13.30 : la cittadina di Port Arthur è piena di turisti australiani e canadesi, attirati sia dalle rovine del vecchio carcere che dalla possibilità di fare surf; e un surfista sembra anche Martin Bryant, quando nel primo pomeriggio arriva in città con la tavola da surf sul tetto della sua vecchia Volkswagen ed i suoi abiti sportivi. 

Bryant entra nel “Broad Arrow Cafè”, una tavola calda piena di turisti che stanno pranzando, ordina uno spuntino e, senza rivolgersi a nessuno in particolare, commenta come sfortunatamente vi siano pochi turisti giapponesi nel locale. 
Poi si muove verso il fondo della tavola calda, ed estrae dalla sua borsa del tennis una videocamera, piazzandola su un tavolo libero. Rimane a fissare per alcuni minuti una coppia di origini asiatiche. Senza che nessuno riesca a comprendere ciò che sta per accadere, estrae un fucile semiautomatico AR15. 
Testimoni oculari hanno affermato che non si è messo a sparare a casaccio ma che, con estrema calma, ha preso la mira con attenzione per ogni singola vittima.
Uccide la coppia, poi, facendosi largo tra la folla, comincia a sparare metodicamente, rivolgendosi prima alla sua destra, quindi alla sua sinistra.


Trascorrono meno di 30 secondi prima che lasci il Broad Arrow Café: all’interno 20 persone giacciono senza vita, 20 sono ferite. Fuori spara alla folla e parecchi turisti vengono colpiti. 
Si reca nel piazzale d’ingresso dell’ex penitenziario: spara sull’autista di un bus turistico, sui passanti, sulla folla in coda alla biglietteria, su turisti che cercano di raggiungere un’auto per fuggire; infine prende in ostaggio un abitante del posto e lo costringe ad accompagnarlo in auto in una piccola località chiamata Copping. 
Bryant si è lasciato dietro a questo punto un enorme numero di morti e feriti ed un gran caos, tanto che la polizia (del tutto impreparata) fatica a ricostruire l’accaduto e l’ospedale di Hobart deve cercare medici nelle città vicine, non essendo pronto ad assistere nello stesso momento un così elevato numero di feriti. Vengono convocati anche degli psicologi, il cui compito è prestare le prime cure psicologiche ai sopravvissuti in stato di shock. 
Percorre poche centinaia di metri e incontra una giovane donna che passeggia con i suoi due figli. Colpisce a morte la madre e il figlio più piccolo. Il bimbo più grande cerca di fuggire, si nasconde dietro un albero. L’uomo lo segue, lo raggiunge, lo uccide. 
Ritorna alla sua auto e si allontana; percorre un breve tratto, verso una Bmw parcheggiata. Tre colpi raggiungono i tre occupanti dell’auto che muoiono all’istante. 
Bryant si è nel frattempo asserragliato in un villino (il “Seascape Cottage”), abitato da una coppia di sessantenni che tiene in ostaggio insieme alla persona dalla quale si è fatto accompagnare, minacciandoli con due fucili automatici, uno dei quali conservato fino a quel momento nella capiente borsa da tennis. Il cottage è circondato su un lato dal mare e sugli altri tre da un ampio prato piatto che gli offre ottima e completa visibilità, tanto da rendere estremamente difficile un’irruzione della polizia. 
Quando si cerca di intavolare una trattativa, Bryant inizia a sparare all’impazzata, rendendo fin da subito evidente di avere a disposizione molte munizioni. Ad un giornalista che è riuscito a trovare il numero di telefono del cottage e lo ha chiamato per proporgli un’intervista, Byant risponde che non ha tempo da perdere e che si sta “divertendo troppo”; manifesta poi l’intenzione di farsi una doccia e afferma di non voler essere disturbato . 
Malgrado la presenza di oltre 200 agenti speciali, la situazione resta in fase di stallo fino alle 8 e 30 del mattino successivo, quando la casa prende fuoco, appiccato dallo stesso Bryant, che in precedenza aveva richiesto un elicottero per la fuga, elicottero che gli era stato negato. Pochi minuti dopo aver appiccato l’incendio, il killer esce dal cottage con i pantaloni in fiamme e si arrende senza opporre resistenza, lasciandosi dietro tre corpi carbonizzati e portando così il bilancio finale della strage a 35 morti e 18 feriti.
Il 22 novembre 1996 la Corte Suprema condanna Martin Bryant a scontare 35 ergastoli, uno per ogni sua vittima. 


Martin Bryant, 28 anni, alto, di carnagione chiara, verrà descritto come un tipo strano, solitario, un po’ “ritardato”. Alcuni psichiatri faranno una diagnosi di schizofrenia, altri riscontreranno la presenza di una grave malattia mentale conosciuta come “sindrome di Aspergen”.


Per tutta la durata del processo, Bryant sorriderà mentre vengono descritti i suoi delitti,sino a ridere apertamente durante la visione di una registrazione amatoriale che testimonia il massacro. 
Verrà tuttavia giudicato capace di intendere e di volere e condannato al carcere a vita, senza possibilità di libertà sulla parola.


Bryant, il più famoso spree killer della storia, è oggi ospite della Hobart’s Risdon Prison.
In un’intervista rilasciata subito dopo il processo, la madre di Martin dichiarerà: “avrei preferito che mio figlio fosse morto insieme alle sue vittime”.


Nato e vissuto ad Hobart, capitale della Tasmania, Martin era descritto come un bravo studente, anche se una perizia eseguita dopo gli omicidi ha mostrato un quoziente intellettivo (Q.I.) di 68, quando il limite minimo del Q.I. è generalmente considerato 90; benché il criterio di valutazione del Q.I. e la sua stessa validità siano spesso messi in discussione, appare certo che Martin Bryant utilizzasse un linguaggio semplice ed estremamente povero, adatto più ad un bambino di 9 – 10 anni che ad un adulto di 29, e che mostrasse chiari segni di immaturità e difficoltà relazionali e di comportamento. Mentre infatti ad una conoscenza superficiale veniva descritto come un ragazzo fin troppo normale, magari un po’ introverso, chi lo conosceva meglio evidenziava comportamenti decisamente strani, come correre di notte nei parchi o nei giardini altrui armato di pistola.


Alcuni anni prima dei fatti di Port Arthur, Martin Bryant conosce una vedova sessantenne di nome Helen Harvey e si trasferisce a vivere a casa sua. Pur non svolgendo nessun tipo di attività lavorativa, Bryant ha sempre una notevole disponibilità di denaro, probabilmente dovuta proprio alla Harvey. 
Nel 1992 i due hanno un incidente automobilistico nel quale la donna, che era al volante, perde la vita, mentre Bryant riporta solo ferite di modesta entità alla testa; la dinamica dei fatti non è mai stata chiarita, anche se da più parti si è ipotizzato fin da allora che non si fosse trattato di un vero incidente ma di un omicidio accuratamente mascherato. A seguito della morte della Harvey, Martin Bryant eredita oltre mezzo milione di dollari e la villa dell’anziana vedova. Alcuni mesi dopo anche il padre di Bryant perde la vita, annegando in un pozzo nella sua fattoria. Questi due episodi, il primo chiuso come incidente ed il secondo come suicidio, erano forse le prime avvisaglie di una notevole pericolosità legata ad una forte pulsione omicida, maturata in una personalità chiusa, incapace di immedesimazione nelle sofferenze altrui, apatica, estremamente egocentrica (Bryant apprezzerà moltissimo, e senza nasconderlo, l’attenzione morbosa che i mass media gli dedicheranno dopo gli omicidi) e narcisitica, incapace di stabili e profondi legami affettivi.


Nel 1995 Bryant abbandona il suo precedente look (capelli tagliati a spazzola e abiti casual) per passare al “wanna – be surfer style”, molto diffuso tra i giovani australiani: pur sapendo a malapena nuotare, Bryant si fa allungare i capelli, gira in costume e abiti sportivi da surfista, porta addirittura in giro una tavola da surf sul tetto dell’automobile. Da sue dichiarazioni è emerso che in questo periodo coltiva fantasie di suicidio, ben presto abbandonate per fantasie omicidiarie decisamente fin troppo concrete.


Bryant ha dichiarato di aver scelto per i suoi omicidi la città di Port Arthur soprattutto per la sua storia: scoperta nel 1642 dall’olandese Abele Tasman, la Tasmania venne colonizzata all’inizio dell’Ottocento dagli inglesi, i quali sterminarono i circa 5.000 aborigeni dell’isola e realizzarono su una piccola penisola, dove si trova appunto Port Arthur, una delle colonie penali più rigorose, simile forse alla Cayenna francese, creata per ospitare fino a 3.000 detenuti e attiva dal 1830 al 1877. Solo i criminali più pericolosi, violenti e plurirecidivi, venivano inviati in quella colonia penale che si limitava ad isolarli dal mondo ma con metodi che servivano solo ad esasperarne le pulsioni violente e i più o meno latenti disturbi psichici: in un isolamento praticamente totale e costretti a lavorare in assoluto silenzio, i detenuti dovevano indossare delle maschere fuori delle celle e venivano impiegati nei lavori forzati nelle miniere o nella foresta. Anche se nel 1852 il regime penitenziario venne modificato, con l’abolizione delle frustate e degli strumenti di tortura usati fino ad allora, è rimasto famoso l’isolamento assoluto del carcere, assicurato dai carcerieri con feroci cani da guardia e squali attirati nelle acque intorno alla colonia spargendo nel mare sangue e viscere animali.

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